“La banca come impresa, tra profili privatistici e pubblicistici” di Salvatore Mirabelli

 

Università degli studi di Modena e Reggio Emilia

Dipartimento di Comunicazione ed Economia – Reggio Emilia

Corso di Laurea Magistrale in Economia e diritto per le imprese e le Pubbliche Amministrazioni

 

Tesina di Diritto Bancario sul tema de:

“La banca come impresa, tra profili privatistici e pubblicistici”

di

Salvatore Mirabelli – matr. 104252; email 162884@studenti.unimore.it

 

Il Codice Civile, come ben noto, ha avuto una suddivisione in varie parti, in sede di redazione, definite libri. Ognuno di questi libri ha ad oggetto un determinato tema, che approfondisce e regolamenta nei minimi dettagli, ovviamente all’interno dello stesso vi sono delle contraddizioni piuttosto marcate ovvero vengono regolamentate nello specifico delle fattispecie che non ricadono ormai più nel panorama consuetudinario reale. Tutta questa premessa per sottolineare il fatto che il Codice Civile, regolamenta in maniera rigida alcune fattispecie, magari ormai non riscontrabili nella realtà empirica, ma senza prevedere norme specifiche per diversi tipi di situazioni che fanno riferimento all’attività economica. Il libro V del Codice, “Del Lavoro”, è la parte nella quale troviamo le norme di diritto commerciale e societario, già questo basti per sottolineare quanto detto, ed è forse tra i principali fautori delle stranezze presenti all’interno del nostro codice. Come già accennato, è proprio in questo libro del Codice che nascono e prendono corpo le norme relative al Diritto Commerciale.

All’art. 2082 troviamo una definizione fondamentale al fine di chiarire una volta per tutte chi è l’imprenditore e quindi chi si posiziona come protagonista nella scena della libera “attività economica”. L’obiettivo dell’art. 2082 è quello di cercar di cogliere la riserva di legge che troviamo all’art 41 della Costituzione: “La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.

Proprio in base a questo comma, dell’art. 41 della Costituzione, si da de facto al legislatore la facoltà di stabilire come e chi, possa esercitare la tanto conclamata, libera attività economica. Fin qui, abbiamo però estrapolato solo la definizione di Imprenditore, e nulla di ben definito sull’impresa.

La nozione d’impresa, invero, non si sottende direttamente ad una norma specificata dal Codice, il quale, dopo aver asserito e definito il concetto di imprenditore, si riferisce molto più all’impresa che all’imprenditore stesso. Ovvio è di pensare che il concetto di impresa è insito nella definizione di “attività economica organizzata” contenuta all’interno dell’art. 2082.

Emerge un dato, da questa analisi, che ritengo impossibile sottovalutare. E’ l’attività economica che realizza un’impresa (così come più volte specificato) è solo in virtù dell’esistenza dell’impresa che il legislatore ha preferito specificare la figura dell’attore principale di questo rapporto. Storicamente, ciò è stato possibile grazie ad una specifica visione del legislatore del ‘42, prettamente rurale, che accorpava le attività economiche sotto la sfera di potere dello Stato sovrano, ed aveva, perciò, la necessità di stabilire chi poteva fare impresa ed in quali ambiti. Negli anni successivi si è – gioco forza- abbandonato lo schema logico che abbiamo appena approfondito per virare verso una visione decisamente più liberale e che andava a delineare l’impresa come generatrice di benessere per il mercato. L’impresa passa, quindi, dall’essere un mero centro di attività lavorative, ad un organismo integrante del mercato e la produzione normativa ne risente molto. Negli anni ‘90, infatti, il legislatore (ed il diritto in generale) cessano di essere la variabile del mercato e di regolamentarlo a priori. Nasce un nuovo modo di legiferare, quello a posteriori, che adegua il sistema normativo agli avvenimenti del mercato, il quale storicamente era basato su di un sistema industriale e sta via via trasformandosi e dando sempre più spazio alle nuove realtà finanziarie che sono sempre più protagoniste dello stesso. In questa scena si colloca il diritto bancario, ramo del diritto commerciale che si pone il problema di parlare della differenza tra le banche e le attività commerciali differenti. Intanto, degno di nota, dev’essere il fatto che la banca è vista e ritenuta a tutti gli effetti un’impresa, del tutto particolare e con una propria legislatura, lo vedremo, ma addirittura è richiesta alle banche l’iscrizione al registro delle imprese.

Possiamo dire che le banche nascono giuridicamente, al fine di giocare un ruolo fondamentale nell’industrializzazione di un paese particolarmente svantaggiato rispetto al resto del mondo. Fin qui si è cercato di sottolineare come, in tutto il diritto commerciale, fosse di fondamentale importanza il contesto storico in cui le imprese vivevano. Ciò è molto più evidente per la storia normativa delle banche che, dall’Unità d’Italia fino al 1926, non godranno mai di una legge apposita che stabiliva in maniera generale i caratteri dell’attività bancaria, che furono assoggettate al diritto comune delle imprese e quindi mancavano di tutto ciò che si poteva definire “controllo pubblico”, questo si applicava per le sole banche creditizie che non emettevano “biglietti di banca”. Dal 1926 in poi cambia tanto, le banche diventano oggetto di un’apposita legge che ne regolamenta le attività e soprattutto sono assoggettate ad un organo di vigilanza, una banca Pubblica che accorperà tutte le funzioni di vigilanza e controllo e sarà l’unica a poter emettere i c.d. biglietti di banca. Di qui a poco il governo, doterà l’Italia di una prima Legge Bancaria che non era altro che una parte formata da discipline comuni a quelle delle imprese e di una parte specifica al mondo delle banche. Altro forte cambiamento si ebbe nel lasso di tempo che va dal 1936 alla metà nei primi anni ‘80 nel quale si attuarono le norme che vedevano un forte assoggettamento al diritto Pubblico di alcune banche che riuscirono ad imbrigliare le attività economiche private e a vedere una presenza pubblica massiccia all’interno degli istituti di credito. Tutto questo accadde per un motivo, la volontà del governo di attuare le tanto decantate “politiche di industrializzazione” e, come già detto, un ruolo fondamentale era giocato proprio dalle banche. Di certo un regime dittatoriale aveva la necessità di tenere sotto controllo direttamente gli enti bancari ed iniziò una campagna di partecipazione statale all’interno delle suddette banche. “Lo Stato, in questo modo, fu costretto a intervenire con un duplice obiettivo: favorire il finanziamento degli investimenti durevoli delle imprese mediante mutui a medio lungo termine. E rilevare le partecipazioni industriali possedute dalle banche, onde restituire a esse la necessaria liquidità. Nacquero, quindi, nel 1931 l’IMI (istituto mobiliare italiano) e nel 1933 l’IRI (istituto per la ricostruzione industriale), che diventò poi perno del sistema delle partecipazioni che lo Stato si era trovato a possedere dopo gli interventi”.

Precedentemente si faceva riferimento al fatto che molte cose cambiarono all’inizio degli anni ‘90. In Italia si pose fine al sistema bancario concepito dal fascismo, e quindi da un regime totalitario, solo nella prima metà del 1990 periodo in cui, con la “legge Amato”, il governo attuò una politica che andava decisamente in senso opposto rispetto alle norme fasciste, si cercò di assoggettare le banche che erano rette dal diritto pubblico (Banco di Napoli, Banco di Sicilia ecc.) alle norme delle Società per Azioni. In questo periodo la produzione normativa in tema bancario fu molto attiva, si cercò di recuperare il terreno perso accorpando tutte le norme bancarie in un Testo Unico, il Testo Unico Bancario (TUB), appunto. Norme che  andarono tutte in un senso, quello di dare maggiore respiro ai soggetti finanziari e maggiore protagonismo all’interno del panorama economico italiano.

In questa tesi, si intende presentare un  approfondimento riguardante il rapporto legato al fallimento delle banche e, soprattutto, come il TUB dialoghi con la legge fallimentare, alla luce anche delle riforme da poco messe in campo. Ci si approccerà al problema con una messa a confronto tra i profili contenuti nel TUB e quelli enunciati dalla legge fallimentare, a cui sono soggette le società di capitali, senza però arrogarsi l’onere di voler esplicare l’intera disciplina fallimentare delle banche. Ci limiteremo infatti ad approfondire solo alcuni profili, i più (ad avviso di chi scrive) curiosi.

Nel TUB, all’art 80, è stabilito che è il ministro del tesoro su segnalazione della Banca d’Italia ha il  potere di revocare la concessione ad esercitare l’attività bancaria e ne dispone la liquidazione coatta amministrativa così come previsto dalla legge Fallimentare. Il decreto del Ministro viene pubblicato in Gazzetta Ufficiale. Successivamente a questo passo vi è già una prima particolarità delle banche rispetto alle società, e cioè che le prime non sono soggette a procedure concorsuali differenti dalla liquidazione coatta e che si applicano, per quanto non espressamente previsto, le norme relative al normale fallimento.

Questo fino a pochi mesi orsono nel corso dei quali spicca la volontà del Governo di intervenire al fine di mutare il già variegato scenario normativo Bancario. E’ stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale 2 luglio 2016, n. 153 la Legge 30 giugno 2016, n. 119 di conversione del Decreto-legge 3 maggio 2016, n. 59, recante “disposizioni urgenti in materia di procedure esecutive e concorsuali, nonché a favore degli investitori in banche in liquidazione”.

Un testo complesso che, oltre al resto, mentre introduce nuovi istituti giuridici (il pegno mobiliare non possessorio e il patto marciano), e apporta modifiche al Codice di Procedura Civile, nonché alla legge fallimentare (r.d. 267 del 16 marzo 1942), disciplina l’erogazione degli indennizzi agli investitori nelle quattro banche in liquidazione coatta amministrativa (Cassa di Risparmio di Ferrara, Banca delle Marche, Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio, Cassa di Risparmio di Chieti). Tuttavia, in questa sede, non approfondiremo i nuovi istituti giuridici posti in essere dalla decretazione d’urgenza governativa, poiché rischieremmo di perdere tempo su fasi della leglislazione facilmente cangianti. Si preferisce fare riferimento al fatto che, la norma prodotta, è aggredita da buona parte della dottrina per il sistema con il quale è venuta al mondo: i tanto abusati Decreti Legge. In questa circostanza è d’obbligo far rilevare l’oggettiva assenza del presupposto alla base dei Decreti Legge e cioè la situazione di urgenza, che, banalmente, non esiste in questo caso. Questo porterà ad un’ovvia e scontata rivisitazione del complesso normativo.

Il TUB prevede, all’art. 81, i soggetti che seguiranno le procedure di liquidazione e successivamente vi è un minuzioso procedimento legato all’individuazione dello stato d’insolvenza. Per certi versi possiamo definire il suddetto procedimento simile a quello legato alla legge Fallimentare, ciò che  cambia sono gli attori in gioco. Il Tribunale del luogo in cui la banca ha la sede legale è chiamato a procedere, esattamente come nella legge fallimentare, su proposta dei creditori, per istanza di un pubblico ministero o d’ufficio alla dichiarazione dello stato d’insolvenza, che avviene con una sentenza pronunciata in camera di consiglio e dopo aver sentito il parere della Banca d’Italia.

Anche con riguardo alle caratteristiche dell’oggetto dell’accertamento giudiziale (lo stato di insolvenza) non si devono segnalare novità conseguenti alla riforma del diritto fallimentare.

Il dibattito relativo alla nozione di insolvenza delle banche, resta aperto e molto acceso con una parte della dottrina che sostiene che il concetto d’insolvenza sia da estrapolare dalla Legge Fallimentare poiché al suo interno lo si definisce come universale e quindi in linea di principio, comune a tutte le procedure di crisi, ed un’altra che, se pure inizialmente sottolinea i tratti comuni fra le due fattispecie dà risalto alla particolarità dell’attività bancaria rispetto a quella d’impresa e sottende come sia necessario predisporre dei meccanismi che anticipino la dichiarazione di stato d’insolvenza.

 

Conclusioni

Si è voluto analizzare, o si è cercato di farlo, tutto ciò che è disciplina comune tra le banche e le aziende private con una particolare lente di ingrandimento sui profili legati alla situazione d’insolvenza al fine di constatare quali divergenze emergono sia dall’una che dall’altra attività economica. Di fondamentale importanza era poi l’obiettivo di segnare il come le banche siano arrivate alla legislazione odierna cercando di utilizzare nozioni didattiche di base, quelle di cultura generale e quelle di ricerca. Il risultato è stato una presa di coscienza sul mondo che gravita intorno al diritto bancario. Possiamo concludere con certezza che l’ordinamento italiano è se non altro sufficientemente completo da questo punto di vista, ma che le soluzioni ad annosi problemi, siano state trovate in un periodo troppo posteriore rispetto alla loro manifestazione. E’ inoltre, particolarmente curioso come si sia arrivato ad avere leggi certe sulle banche solo attraverso la decretazione d’urgenza anche quando (quasi sempre) non se ne sentisse affatto il bisogno. Le differenze più lampanti sono state di certo quelle relative alla disciplina del fallimento. Abbiamo visto come nel TUB vi siano particolari norme che vanno a specificare, le banche, dei particolari procedimenti che sono speciali rispetto alle altre Società per Azioni e ciò appare quanto meno degno di nota.

La domanda principale, sorta da questo lavoro è stata questa:

Come mai si ebbe un bisogno impellente di concedere ai finanzieri autonomie così ampie tali da consegnare in mano degli stessi le chiavi dell’economia, non solo dell’Italia, ma, soprattutto, dell’Unione Europea(attraverso la prima direttiva in tema di diritto bancario mai ricevuta dal nostro ordinamento)? Qual’è stata la ratio che ha spinto il legislatore a concedere così ampi spazi d’azione ai banchieri ed alla finanza?

Innanzitutto credo che, anche qui, la motivazione sia da ricercare nel momento storico nella quale le riforme in questione vennero immerse. Un mondo che cambiava e vedeva sempre più protagoniste le banche e le signorìe finanziarie che richiedevano passi coraggiosi di questo tipo.

Non resta che sperare di aver fatto i passi giusti, anche se la storia qualche indizio ce l’ha già fornito.

BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA

  • “Lezioni di diritto Bancario” – Ferro Luzzi, 2012; Giappichelli Editore.
  • “L’Ordinamento Bancario” – Renzo Costi, 2012; Società Editrice Il Mulino
  • www.altalex.com
  • www.brocardi.it
  • www.ilprimatonazionale.it

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